Ritorno a scuola

Fa un certo effetto entrare a scuola in orario di lezione, ma sicuramente io e Ale eravamo troppo concentrati su quello che sarebbe successo e comunque non facciamo a tempo a spiegare alla bidella (ops, al personale non docente) perchè siamo lì che Juan ci corre incontro, ci prende uno per mano e ci porta nella sua classe.Già, perchè siamo qui, davanti a 19 paia d’occhietti furbetti e curiosi? Per fortuna abbiamo studiato: siamo qui per parlare dell’adozione, per rispondere a qualche domanda e fugare qualche dubbio su questa nostra famiglia “innaturale”.
Comincia Ale: secondo voi, cosa serve a un bambino per crescere bene? Cioè non per diventare grande e basta, per quello è sufficiente mangiare. Per diventare un adulto che sa prendersi cura di sè, aiutare gli altri e stare bene nel cuore?
Veniamo investiti da una mitragliata di cose necessarie, viste dai bambini stessi: giocare, essere amati, stare con gli amici, essere curati, … per le coccole serve un piccolo suggerimento, accolto con un corale: Sììì!
Bene, tutte queste cose arrivano normalmente dai genitori. Ma fare il genitore non è facile e se non le ha ricevute da piccolo, può capitare che non riesca a darle a sua volta. Rendendo suo figlio molto infelice ed esponendolo ad ogni rischio. Ed è per questo che quel grande non può più continuare ad essere mamma o papà. Ma dal momento che ogni bambino ha diritto a un papà e una mamma si cercano due genitori per lui e se non si trovano vicino, si cercano più lontano… in tutto il mondo se serve.
E questo è un po’ quello che è successo a Juan.
Juan, nostro figlio, lui che in questo momento non trova pace, nervosissimo si siede, poi si alza, fa un giro per la classe, prende un libro, cerca di leggerlo senza guardarci, poi sta un po’ con noi, poi ritorna in fondo all’aula…
Poi tocca me a parlare dei genitori pronti ad accogliere dei figli non nati dalla loro pancia, del loro faticoso cammino per conquistare il “bollino blu” e dell’attesa. Racconto anche dell’abbinamento – di quel momento da sovraccarico emotivo in cui ti descrivono tuo figlio (o i tuoi figli, come nel nostro caso) e alla fine ti fanno vedere la sua foto.
Juan porta in giro per la classe la prima foto che abbiamo di lui e della sorella, la tiene orgoglioso sul petto, tutti i suoi compagni devono vederla.
Infine parlo della Colombia, di questo paese esotico, verde, senza le stagioni, dove c’è sempre lo stesso clima tutto l’anno, caldo a Medellin e fresco a Bogotà, dove si trovano frutti sgargianti e sconosciuti, dove la gente è tranquilla, sorridente e bendisposta.
Juan porta le foto e aiuta i suoi compagni a sfogliarle, ma sempre senza parlare, e i bambini ricominciano con le domande. Alcune pertinenti (dov’erano Juan e Mariana prima che arrivaste a prenderli?), altre un po’ meno (come sono le macchine da corsa in Colombia?).
Qualche domanda la rimbalziamo a Juan senza troppo successo – è un momento troppo forte per lui.
Alla fine è passata un’ora. Le maestre ci dicono che i bambini sono stati molto coinvolti e che difficilmente riescono ad ottenere simili livelli di attenzione. Juan è contento, probabilmente è stata dura, ma forse questa ulteriore prova che di queste cose si può parlare, che noi siamo i genitori per lui, che non c’è nulla di brutto o sbagliato nel colore o nel paese da cui arriva, forse lo aiuterà a stare un po’ meglio.

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